Che ci fa una barca nel bel mezzo della rotatoria in Piazza Vittorio Emanuele II?
E’ dagli anni ’60 del secolo scorso che non si vedevano barche in piazza. E’ probabile, infatti, che nessuno ricordi più, quando nei mesi invernali spirava, forte e impetuoso il greco-levante e le onde del mare entravano anche nelle case lungo la cala, che i pescatori mettevano al sicuro il loro capitale -barca e reti- fin sotto il municipio. Non c’erano, allora, le due dighe frangiflutto a difesa dell’abitato per cui i marosi arrivavano per giunta fin sulla strada scavalcando lo scalo di alaggio, ove erano tirati a secco gli ultimi 4 pescherecci che nei mesi estivi andavano in mare con le lampare. Non c’era altro spazio sicuro se non la sede stradale di via S. Pietro, fin davanti al bar Pugliese e all’ingresso del Municipio, per proteggere le piccole imbarcazioni con gli attrezzi da pesca.
Così d’improvviso, i giorni precedenti la domenica dei falò, una tipica barca da pesca è apparsa al centro della piazzola spartitraffico all’inizio di via Bari, sistemata su uno strato di ciotoli di mare, al posto della terra, cui prima erano state piantate delle siepi. Si è pensato a un improvviso ravvedimento dei tecnici del Comune, che avevano concepito la costruzione e l’arredo di quelle obbrobriose rotarorie, con l’introduzione di un qualcosa di caratteristico, per rendele più confacenti all’ambiente urbano.
Niente affatto! Si è saputo, subito, che quell’intervento di sostituire la piazzola a verde con l’installazione di una tipica barca a remi era opera di un gruppo di commercianti che si sono presi la cura di manutentare gli spazi, che fungono da spartitraffico al centro della città, potendo beneficiare della possibiltà di pubblicizzare le loro attività, senza pagare la relativa tassa. E, difatti, qualche giorno dopo, sono apparsi, sul bordo dell’area, piccoli cartelli con l’indicazione dei commercianti che hanno preso a loro carico l’onere della sua radicale trasformazione in un elemento decorativo a richiamo dell’attività marinara locale.
Tanto mi ha fatto insorgere l’interrogativo se l’intento di quei commercianti fosse proprio quello di significare, col quel tipico natante a remi, la civiltà peschereccia, come uno dei fattori costitutivi dell’identità di Giovinazzo. Una specie di ricostruzione della memoria cittadina relativa alla comunità marinara, da sempre confinata “dréte a pùrt”, e che il rapido sviluppo socio-economico degli ultimi decenni del ‘900 ha completamente soppiantato. Un paesaggio di generazioni dedite alla piccola pesca che, oggi, è difficile rintracciare nei dintorni di cala porto, ma che in un passato, anche recente, è stato l’espressione vitale della nostra civiltà marinara.
E’, dunque, da presumere che non era intendimento degli autori dell’intervento presentarlo come un progetto rivolto a ripensare lo spazio spartitraffico anche come luogo di memoria della tradizione peschereccia e d’ispirazione per tutti noi a conoscere la storia di quell’angolo così caratteristico del nostro territorio che non si è mai risciuti a qualificare come un vero e proprio porto.
Grave che non ci abbia pensato neppure qualche amministratore comunale a caratterizzare quel natante, anche se non si sa se voglia rappresentare una “paranza”, fine ottocento inizio novecento, o una lampara, come ricordo degli stenti e delle fatiche di tutta quella gente che ha vissuto del prodotto del mare senza aver avuto mai a disposizione un approdo sicuro per le loro piccole imbarcazioni che, ogni qualvolta si tornava dalla pesca, bisognava portare all’asciutto e legarle a terra, ai grossi anelli dello scalo di alaggio.
Spero, al tempo stesso, che la riflessione dell’Avv. Camporeale, tuttora attuale, voglia essere anche uno stimolo per i nostri amministratori ad avere considerazione della nuova funzionalità di quel bacino acqueo e che si adoperino per la sua conservazione con gli interventi necessari a neutralizzare il rischio dell’insabbiamento, da tempo già in atto.
Vuoi che sia «porto rifugio», vuoi che sia «porto di quarta classe», vuoi che sia «porto peschereccio», certa cosa è che ogniqualvolta si è parlato di «porto» a Giovinazzo o ci si è messo un certo «verevigghje» (gioia del cuore) al riguardo, è senz'altro subentrato un fatto «eccezionale» che ne ha impedito la realizzazione.
Ma più che il termine «porto» io ritengo che la iattura è venuta le quante volte all'ansia della realizzazione del «porto» si è data la iattanza di festose cerimonie inaugurali, dello sbandieramento di conquiste politiche, di esaltante traguardo sociale.
E ciò non è avvenuto una volta sola !
Purtroppo il fenomeno si è verificato per ben quattro volte nel corso della storia più recente.
La prima volta avvenne nel 1883 e precisamente il 23 marzo di quell'anno quando il Ministro dei Lavori Pubblici On. Baccarini venne a Giovinazzo, accolto con bandiere, festoni, coperte ai balconi, banda musicale e cittadini osannanti, il quale ascoltò, in Piazza Venturieri su un palco riccamente addobbato, gli oratori che si susseguirono sull'argomento e promise il «porto rifugio» per i numerosi velieri di Giovinazzo; e di fatti in base al Testo Unico 3095/1885 tra i porti da sistemare fece comprendere quello di Giovinazzo, comecché appartenente alla quarta classe della seconda categoria. Ma gli eventi politici travolsero ogni buona intenzione e non se ne fece niente, soprattutto perché la spesa doveva andare a carico dei comuni interessati. Poi nel 1919 quando, ad occasione delle Feste Patronali, fu costituito un «comitato esecutivo» per la costruzione di un «porto peschereccio» e il Corriere delle Puglie diè notizia del comizio del 12-9-1919 al quale intervenne nella Piazza Vittorio Emanuele II, gremita, un popolo frenetico che non si stancava mai di applaudire.
Ma... dopo numerose traversie, le patrie casse erariali si svuotarono e il 2-10-1924 il Ministro Sarrocchi comunicava l'indisponibilità del bilancio ad affrontare la prevista spesa di tre milioni.
Si giunse così al 1940, quando la commissione Generale del Bilancio nella tornata del 26-4-1940 comprendeva fra i porti rifugio da sistemare e completare anche quello di Giovinazzo, ponendo a carico dello Stato l'onere della spesa, ed anche questa volta non mancarono cerimonie, discorsi e mortaretti, ma, guarda caso, qualche mese dopo fu la guerra e non fu certo il caso di badare più al nostro porto.
E non è finita: finalmente si giunse al 6-5-1951, «data memorabile da scolpire sui duri macigni che invano i marosi colpiranno nei secoli», come enfaticamente scrisse un amministratore del tempo, ma... ahimè! non voleva quegli essere profeta di sciagure; purtroppo però ancor prima che l'opera fosse compiuta fu inghiottita dal mare ed ora qualche blocco ancora affiora ben visibile dal lungomare di levante a testimoniare una speranza svanita.
Ma l'idea fissa del giovinazzese fu il porto, così come i politici utilizzarono quell'idea dei giovinazzesi come specchio per le allodole; sicché se questo non si potè avere ci si accontentò di una banchina d'attracco nella cala porto che pur realizzata senza pretese, resse e regge all'ira del mare.
Forse, non forse, certamente entusiasmato dal successo e, visto che ormai di porto a Giovinezze non era più a parlare, quanto meno per scaramanzia, anche perché dopo l'ultimo disastro nessuno più osava pronunziare la parola «porto» né in pubblico né in privato e meno che mai nei comizi, si virò di bordo e si aggirò l'ostacolo.
Si cominciò a fare inserire nella mente di tutti la necessità di una diga frangiflutti a protezione delle case dei pescatori che affacciano, quasi a fior d'acque, sullo specchio antistante Piazza Porto e l'idea man mano aveva trovato albergo nella mente di chi manovra certe leve, anche perché i nostri avi avevano fatto una certa esperienza allo stesso oggetto cercando di limitare l'offesa delle onde di ponente e settentrione gettando alla rinfusa in prossimità delle «Tre Colonne» una serie di massi lunga oltre una trentina di metri dalla riva che ressero e reggono tutt'ora dopo secoli, dal momento che è immemorabile la data della loro posa in opera.
Fu così che venne eseguito il braccio a ponente delle Tre Colonne, che costruito, pare, con criteri esatti per calcoli e materiali, fin oggi appare resistere ad ogni aggressione, - e di mareggiate fin ora ne abbiamo avute - e speriamo che regga ancora nei secoli.
Questo fatto ha generato l'idea che già esisteva allo stato larvale di creare un altro braccio - in corso d'opera - che partendo dal «Fortino», andasse a chiudere lo specchio d'acqua raggiungendo o superando 1'estremità della diga di ponente e lasciando una capace imboccatura per entrare, diciamo così, nel «porticciolo», sempre che anche questo termine non sia pregiudizievole!
Allo stato non resta che concludere con un augurio: che le opere in corso siano portate a compimento e che quello che oggi si presenta come diga frangiflutto, col tempo sia attrezzato in modo da divenire «porticciolo turistico» che, oltre a dare rifugio alle barche da pesca, assolva a quelle funzione cui la nostra città in questi ultimi anni sembra particolarmente deputata e da cui potrà ricavare considerevoli risorse integrative l'economia cittadina.
da " ‘u Tammurre " Anno I, N. 6, -settembre 1991-.
Lo scalo di alaggio con barche tirate a secco
Uno dei primi pescherecci a motore ormeggiato sullo scalo di alaggio
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